L’ATTACCO DI PANICO
Il disturbo di panico è inserito dall’APA (American Psychiatric Association) tra i disturbi di ansia e non è codificato come un vero e proprio disturbo mentale.
L’ansia è una compagna fedele dell’uomo, una componente ineludibile dell’esperienza umana. È una reazione psicobiologica ad una valutazione di rischio legata all’incolumità sia fisica che psichica.
In base ai livelli di attivazione, di intensità, di durata e frequenza, l’ansia potrebbe essere definita “normale o patologica“. Possiamo considerare un ansia “normale” se pensiamo a quella giusta tensione che si prova, per esempio, nel dover sostenere un esame, che ci permetterà di rimanere concentrati sul compito e ci faciliterà il recupero delle informazioni. Qualora l’intensità, la frequenza e la durata dell’ansia aumentassero e superassero una certa soglia, andranno ad interferire con il compito da svolgere. In questo caso potremmo parlare di un’ansia disturbante che potrebbe evolvere in un’ansia “patologica” fino ad arrivare all’attacco di panico.
L’attacco di panico è caratterizzato dalla comparsa improvvisa di paura o disagio intensi, che raggiungono i massimi livelli in pochi minuti.
Il soggetto presenta sintomi sia di tipo somatico che psicologico: tachicardia, sudorazione, tremore, respiro difficoltoso, giramenti di testa o senso di debolezza, brividi, senso di irrealtà, di stordimento e di estraniamento da se stessi, sensazione di perdere il controllo, paura di impazzire o addirittura di morire.
La frequenza e la gravità dei sintomi variano nel corso del tempo e delle circostanze, possono essere inaspettati o insorgere in situazioni particolari come:
- trovarsi in spazi aperti o chiusi dove è difficile allontanarsi
- provare paura per la propria salute
- guidare in autostrada
- attraversare ponti o gallerie ecc.
Di solito il primo attacco di panico si manifesta inaspettatamente – “a ciel sereno” – per cui la persona si spaventa enormemente per ciò che sente e a volte può ricorrere al pronto soccorso. Spesso l’attacco di panico avviene in periodi di vita stressanti e alcuni eventi possono fungere da fattori precipitanti come il matrimonio, la separazione, un lutto o una malattia nonchè problemi finanziari e lavorativi.
La persona che sperimenta un attacco di panico ha la sensazione di trovarsi in un pericolo imminente, annientante, senza controllo e tutto questo scatena una forte paura di morire.
La paura è l’emozione più “basica” la più automatica e, nelle circostanze in cui si attiva, finisce per prevalere su tutto: emozioni, sensazioni e pensieri.
La paura ha il compito di disporre l’organismo a reagire prontamente per evitare il pericolo, è una sorta di sentinella a guardia dei nostri scopi più importanti tra i quali la nostra sopravvivenza fisica.
Non appena si percepisce o si ipotizza un pericolo tutto l’organismo si attiva a reagire: i muscoli devono essere pronti a scattare quindi il cuore pompa più rapidamente, la respirazione si fa più intensa per inviare più ossigeno ai muscoli e l’attenzione è concentrata sul pericolo da cui difendersi: lottare o fuggire.
Questa reazione fisiologica è la stessa che si prova nell’attacco di panico ma con una differenza fondamentale: nella paura la minaccia è ben definita, immediata e concreta nell’attacco di panico il pericolo non è presente.
Durante l’attacco di panico, la persona non sa dare una spiegazione a ciò che le sta accadendo e questo crea ancora più paura. Di conseguenza questa paura andrà ad alimentare sempre di più la sintomatologia fino a che l’individuo si sentirà privo di qualsiasi controllo e in pericolo di vita .
Mettere in relazione la paura con un evento determinante è più facile che individuare cosa scatena l’attacco di panico perchè in quest’ultimo la paura è interna e per trovarne la causa è necessario svolgere una indagine psicologica.
Se il disturbo di panico non viene curato subito può condizionare la vita della persona. Il soggetto organizzerà la propria esistenza attorno all’idea di poter avere, in qualsiasi momento, un gravissimo malore e la necessità di un immediato soccorso. Tutto ciò comporterà enormi limitazioni.
La persona tenderà a rispondere a quelle situazioni ritenute a “rischio panico“, trovando atteggiamenti di compromesso (ucire solo se accompagnati) e di evitamento (non guiderà più la macchina, non farà più un certo percorso, eviterà di stare in mezzo alla folla o in coda).
Eviterà quindi tutte le situazioni dalle quali potrebbe essere difficile o imbarazzante allontanarsi o dove non sarebbe possibile un aiuto nel caso di un attacco di panico inaspettato.
L’evitare azioni e luoghi rinforzerà i sintomi fino a renderli sempre più frequenti. Si andranno ad ampliare le situazioni ritenute pericolose con il rischio di isolarsi sempre più e di cadere nella solitudine.
Tutto questo andrà a fortificare l’idea di essere fragili e in balia degli eventi e ciò minaccerà la propria autostima, fino a sviluppare una possibile forma di depressione.
Con il passare del tempo il panico condizionerà il modo di affrontare la vita, ossia “l’evitare di vivere appieno“.
Le soluzioni per prendere in mano la situazione e ritornare a vivere ci sono: gli psicofarmaci e la psicoterapia.
La psicoterapia, con l’aiuto di determinate tecniche (EMDR, Ipnosi, Terapia cognitivo-comportamentale) porta la persona a riattivare le proprie risorse, a comprendere ciò che è successo, trovando le risposte che sono già presenti nella persona stessa. Tutto ciò permetterà di elaborare l’attacco di panico che ha rappresentato un’esperienza traumatica in sè perchè vissuta come angosciante, imprevedibile e inspiegabile da indurre risposte di paura o di impotenza.
Learn MoreIL TRAUMA: FERITA FISICA E PSICHICA
Quando veniamo esposti ad eventi traumatici, il trauma lascia in noi una ferita fisica e psichica. L’esperienza può rimane intrappolata nella mente, nel cervello e nel corpo.
- Cosa intendiamo per trauma
- Come reagiamo ad un trauma
- Come funziona il corpo e il cervello durante un trauma
- Le conseguenze del trauma
- Come si può trattare il trauma
Cosa intendiamo per trauma
La parola trauma deriva dal greco ferita.
In medicina si parla di trauma fisico quando vi è una lesione, alle ossa o ai tessuti molli, prodotta nell’organismo da un evento esterno, come incidenti d’auto, cadute e infortuni sul lavoro.
In psicologia il trauma psichico è definito come la conseguenza di un evento fortemente negativo e percepito come minaccioso per la vita, che genera una “frattura emotiva” nell’individuo che lo vive.
Ciò che determina un trauma è la carica emotiva legata all’esperienza vissuta.
Quando accadono eventi tristi, dolorosi e negativi, sperimentiamo una reazione emotiva che può essere di paura intensa, di vulnerabilità e di perdita.
Una perdita che può riferirsi alla propria identità o alla stabilità fisica e psichica, come nei casi di malattia, violenza fisica e psicologica, lutti e separazioni.
L’emozione si esprime nel corpo e nella mente: pensiamo alla comunicazione di una diagnosi medica nefasta o ad un incidente stradale. In entrambi i casi entrano subito in gioco gli aspetti psicologici, di come la persona reagisce all’esperienza: possiamo sentire un tonfo al cuore, un nodo alla gola, un senso di confusione in testa o addirittura bloccarci, come paralizzati.
Possiamo iniziare a pensare: “Sono in pericolo” ,“Non ho scampo”, “Nessuno mi può aiutare”.
Pertanto, il trauma non può essere distinto tra trauma fisico e psichico perché in qualsiasi esperienza traumatica entrano in gioco reazioni sia fisiche che mentali.
Spesso il trauma genera un cambiamento nella vita dell’individuo e, per farvi fronte, a volte è necessario adattarsi, per cui abbiamo bisogno di una quantità di energia sia fisica che mentale.
È lo stesso corpo che ci invia questa richiesta attraverso sintomi somatici: sentiamo una forma di tensione a livello fisico (mal di testa, mal di schiena, irrigidimento nel collo e nelle spalle ecc.) e a livello psicologico (irrequietezza, rabbia, nervosismo, pianto, ansia ecc.).
A volte le risorse, che tutti noi abbiamo per affrontare le avversità della vita, possono bloccarsi e per far rifluire quell’energia necessaria potremmo aver bisogno di un aiuto psicologico per elaborare il trauma, attraverso dei trattamenti ben specifici (E.M.D.R., Ipnosi).
Intervenire subito significa riattivare le capacità della persona che le permettano, al meglio, di prendersi cura di sé, come ad esempio avere una maggiore compliance nelle cure mediche, o rafforzare il sistema immunitario per velocizzare il processo di guarigione.
Nel procrastinare gli interventi, c’è il rischio di cronicizzare il problema e la possibilità di sviluppare vere e proprie patologie psichiche (disturbi depressivi, attacchi di panico, disturbo post-traumatico da stress) e somatiche (dolore muscolo-scheletrico, ipertensione e patologie cardiovascolari).
Mente e corpo funzionano in sinergia, se la mente sta bene anche il corpo sta bene e viceversa, da sempre il detto Mens sana in corpore sano.
Come reagiamo ad un trauma
Il nostro organismo è predisposto all’auto-guarigione così, come la pelle si rimargina da sé dopo una lacerazione, anche la mente tende a ritrovare un equilibrio dopo una ferita emotiva, ma a volte non funziona sempre così.
Le persone, anche se esposte agli stessi eventi traumatici – come ad infortuni o malattie – non reagiranno tutte allo stesso modo perché, aldilà del tipo di esperienza, entra in gioco la percezione e il significato che l’individuo attribuisce all’evento subito, in base alla propria storia personale e alla eventuale perdita che potrebbe sopportare.
Una medesima esperienza, potrà limitarsi a generare un forte stress in alcuni mentre, in altri, potrebbe dar vita a vere e proprie patologie psichiche o fisiche, ciò dipenderà dalle capacità della persona di affrontare le difficoltà e trovare un nuovo adattamento.
Queste capacità e risorse, che definiamo “resilienza”, sono messe a rischio se il soggetto ha già sofferto – prima dell’evento traumatico – di disturbi psicopatologici di tipo depressivo, ansiogeno o ha sperimentato, già in passato, eventi traumatici, mai risolti ossia rimasti “congelati” come al momento dell’accaduto.
In questo ultimo caso è come se il trauma attuale andasse a risvegliare i vecchi traumi del passato mai portati alla coscienza, rimasti bloccati nella memoria somatica – nel nostro corpo – in maniera frammentata sotto forma di emozioni, suoni, immagini, pensieri e sensazioni fisiche che si “risvegliano” e si vanno a “sommare” a quelli attuali.
Ciò che è accaduto in passato emerge attraverso il corpo: si riprovano le stesse sensazioni fisiche ed emotive provate al momento del trauma originale.
Come funziona il corpo e il cervello durante un trauma
Di fronte ad un pericolo, il nostro cervello si attiva in modo automatico perché la sua funzione è quella di garantirci la sopravvivenza.
Quando percepiamo una minaccia, le informazioni che provengono dai nostri sensi, mobilitano i circuiti cerebrali e si attiva la risposta fisiologica automatica che innesca il rilascio di potenti ormoni dello stress (cortisolo e adrenalina) i quali, aumentano la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria per prepararci all’azione di attaccare o fuggire.
Nel caso che non ci sia via di scampo, il sistema reagisce attivando l’emergenza di base che riduce drasticamente il metabolismo in tutto il corpo: il freezing, che appare come una immobilizzazione paragonabile ad un “congelamento”, un blocco.
La consapevolezza si spegne ed entriamo come in uno stato di trance, uno stato ipnoide.
Nei casi estremi arriviamo a distaccarci anche dal nostro corpo e in questa situazione possiamo non sentire più alcun dolore fisico: è il caso dello svenimento o distacco.
Se la risposta di attacco/fuga ci ha permesso di scampare il pericolo, il sistema di allerta rientra e l’evento verrà memorizzato nella nostra storia autobiografica, anche se può aver provocato più o meno effetti stressanti.
Ma se questa risposta fisiologica viene impedita, come nel caso del freezing, l’attivazione fisiologica rimane bloccata nel corpo perché non c’è stata alcuna azione che ha permesso la scarica ormonale e il sistema non è ritornato in equilibrio.
In questo caso, la persona vive in costante allerta e qualsiasi accadimento potrebbe essere scambiato come un segnale di pericolo, per cui tenderà a riattivare le stesse emozioni e sensazioni vissute al momento dell’evento traumatico passato, come se il pericolo fosse ancora presente.
I circuiti cerebrali, immotivatamente allertati, continueranno a secernere gli ormoni dello stress creando una iper-attivazione cronica che porterà, allo sviluppo di problemi fisici (disturbi del sonno, dolori inspiegabili, ipersensibilità e tensioni) e che alla lunga, andranno ad incidere negativamente anche sul sistema immunitario.
Tuttavia, quando l’esperienza traumatica provoca un’emozione troppo intensa e travolgente, questa rimane bloccata nel corpo e si perde la consapevolezza dell’evento e del ricordo.
Le conseguenze del trauma
Essere vittima di traumi porta a conseguenze sia emotive che fisiche.
Nella maggior parte dei casi queste conseguenze si risolvono spontaneamente senza la necessità di un aiuto psicologico, grazie ai meccanismi innati presenti nella mente umana.
Questi meccanismi integrano le informazioni, relative all’evento traumatico, all’interno delle reti mnestiche del cervello in modo costruttivo e adattivo diventando “narrabili”, ossia dando loro un senso.
Quando invece l’esperienza resta frammentata e continua ad intrudere nel presente, con la sensazione di vivere continuamente il trauma, potrebbe generare una serie di sintomi correlati al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) quali ad esempio:
Le persone, affette da PTSD, cercando di spegnere le loro emozioni non riescono più a riconoscerle, descriverle e regolarle, pertanto non riconoscono le sensazioni somatiche come derivanti dall’attivazione emotiva ma come sintomi di malattia organica (ne sono un esempio gli attacchi di panico interpretati come disturbi cardiaci).
Sarà il corpo quindi che rappresenterà il trauma, se ne farà portatore, senza che la persona ne abbia consapevolezza.
Questa confusione porta a cercare di eliminare il sintomo corporeo facendo ricorso a medicine, a massaggi, allo yoga, o allo sport, non se ne coglie il significato psicologico, come avviene nelle malattie psicosomatiche.
I rimedi adottati, senza un adeguato approfondimento degli aspetti psicologici, possono portare ad un miglioramento temporaneo ma non risolutivo.
Sarà necessario approfondire le determinanti psicologiche per porre definitivamente rimedio anche ai disturbi fisici.
Molte persone si rivolgono a centri Yoga o ad altre discipline olistiche nella speranza di risolvere il proprio problema, ma in presenza di un trauma, questi trattamenti sono solo parzialmente efficaci anzi, in alcuni soggetti, potrebbero causare una nuova ri-traumatizzazione nel momento in cui la persona entra in contatto con le proprie sensazioni corporee senza aver elaborato il trauma iniziale.
Per questo è indicato, oltre che praticare queste tecniche corporee, intraprendere parallelamente anche un percorso psicoterapeutico al fine di rielaborare le memorie traumatiche e poter avere un maggior beneficio.
Video EMDR e PTSD – Center for PTSD – U. S Department of Veterans Affairs
Come si può trattare il trauma
Nel caso di un trauma fisico, a volte, non si comprende perché alcune persone continuano a provare dolore o fastidio, oltre i normali tempi di guarigione e nonostante l’intervento di medici, fisioterapisti, osteopati e professionisti vari, non rispondono ai trattamenti normalmente efficaci.
Come abbiamo visto il ricordo traumatico e le emozioni dolorose legate ad esso, continuano a persistere nella persona: è il corpo che continua a vivere l’evento.
I trattamenti oggi riconosciuti come maggiormente efficaci nel ridurre la sintomatologia post-traumatica, sia dall’Associazione Psichiatrica Americana (APA) che dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono – in ordine ai risultati ottenuti – l‘EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing) e l’Ipnosi, seguite dalla TF-CBT (Terapia Cognitivo-comportamentale Focalizzata sul Trauma).
L’EMDR favorisce la neuro-plasticità naturale del nostro cervello, attraverso un lavoro psicoterapico che coinvolge e integra l’insieme dei processi cognitivi, emotivi e corporei.
La persona viene aiutata a riattivare la capacità innata e naturale di rielaborazione dell’informazione permettendogli di attenuare la carica emotiva associata all’evento traumatico.
Le sensazioni fisiche e le cognizioni – che hanno caratterizzato l’evento – vengono trasformate e il ricordo viene integrato all’interno della propria narrativa personale.
Quando l’EMDR non funziona si interviene con l’Ipnosi, in particolare sulle parti che non riescono a raggiungere la coscienza e ad integrarsi.
Link: https://emdr.it/index.php/emdr-e-ptsd-center-for-ptsd-u-s-department-of-veterans-affairs/
Learn MoreASPETTI PSICOLOGICI DEL LUTTO NEL PERIODO COVID-19
Il Coronavirus ha stravolto le nostre vite; ci ha costretto ad un isolamento forzato a vivere dinamiche emotive e relazionali complicate, fino ad incidere anche sulla ritualità legata alla morte.
Il lutto affrontato nella prima fase della pandemia è stato così atipico da diventare una vera e propria emergenza psicologica.
Due momenti fondamentali possono essere individuati nel lutto che si realizzano prima e dopo l’evento della perdita: l’ultimo saluto da poter dare alla persona cara e il rito funebre che rappresenta il commiato, da parte della comunità, svolge una funzione sociale precisa con un ruolo determinante nell’accettazione del lutto.
L’ultimo saluto.
Nel periodo del COVID, in molti casi, l’ultimo saluto è stato rappresentato dall’immagine dell’ambulanza che porta via la persona cara: da quel momento non si riuscirà più a rivederla. Questa separazione rappresenta già una prima condizione traumatica.
I familiari vivono momenti di angoscia e preoccupazione, non possono stare vicino al proprio caro, nè durante la malattia nè nell’ultimo istante di vita. La notizia del decesso viene data per telefono, dal personale sanitario.
L’impossibilità di rivederlo, di risentirlo, di toccarlo – per le restrizioni dovute al COVID – non ha consentito ai parenti di dare l’ultimo saluto: ci si immagina il proprio caro solo, ad affrontare la morte senza alcun conforto. Tutto ciò rappresenta un ulteriore aspetto traumatico che va ad incidere sulla sofferenza dovuta al lutto.
Il momento della comunicazione dell’evento, resa ai familiari dal personale sanitario, induce stordimento e incredulità (vedi articolo “IL LUTTO“), una reazione normale: è difficile crederci, le persone vogliono ri-verificare e chiedere prima di accettare l’accaduto. Questa incredulità perdurerà di più nel tempo se non si è visto il proprio caro e/o non si è visto il suo corpo. Nelle morti per COVID il corpo viene restituito ai propri cari all’interno della bara chiusa, non possono vederlo, non si prende atto sensorialmente della morte e così che il processo del lutto si complica.
Nel lutto è normale provare sentimenti di rabbia, colpa e paura che si alternano a sentimenti di disperazione; nelle morti per COVID questi sentimenti sono amplificati e perdureranno più a lungo. La rabbia è la risposta emotiva all’incapacità di accettare la perdita come definitiva e può essere rivolta o verso il defunto o all’esterno: i familiari si chiedono se è stato fatto tutto il possibile per salvare il proprio caro. Alla rabbia si aggiunge il senso di colpa che in questa situazione si ingigantisce soprattutto se la persona è stata, o crede di essere stata, la causa dell’infezione.
Il rito funebre
Altro momento fondamentale nel lutto. In ogni cultura e in ogni tempo la morte è accompagnata da rituali che hanno la funzione di aiutare ad accettare il termine della vita umana e la definitiva separazione.
Le misure di contenimento alla pandemia, in particolare in alcune zone, hanno impedito lo svolgimento del rito funebre, mentre in altre, hanno limitato il numero dei partecipanti, consentendo il commiato ai soli parenti più stretti. Il distanziamento, comunque, ha reso impossibile quell’abbraccio, segno di condivisione del dolore con amici, parenti e conoscenti, che scarica la tensione e in qualche modo rende più leggero il peso della perdita.
La mancanza o la riduzione ai minimi termini dei riti funebri, nonché l’impossibilità dell’ultimo saluto, a causa del COVID, hanno impedito di definire il punto in cui si conclude la relazione terrena con la persona deceduta, rinforzando gli atteggiamenti di negazione e inaccettabilità rispetto a tutto ciò che è accaduto, acuendo la sofferenza soggettiva e ostacolando la possibilità di trovare la forza per rialzarsi, ripartire e andare avanti.
Nei casi più complicati ciò ha portato ad uno stato duraturo di intenso dolore che blocca la persona, provocando un vuoto esistenziale e interrompendo il suo vivere con la perdita di qualsiasi interesse incidendo, oltre che sul piano psicologico, anche su quello fisico (perdita di sonno, di appetito fino ad un indebolimento del sistema immunitario).
Per aiutare la persona ad elaborare questo tipo di lutto, è necessario un intervento psicologico in modo da sbloccare questa condizione, favorendo l’espressione delle emozioni dolorose e dei pensieri legati alla perdita e rafforzando tutte le sue risorse necessarie per poter riorganizzare la propria vita.
Dagli studi effettuati sui lutti – definiti in ambito psicologico “complicati” – si è visto che il trattamento più efficace risulta quello con l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing); un metodo di intervento, che sfrutta i movimenti oculari con la stimolazione laterale alternata, in grado di facilitare e accelerare l’elaborazione di eventi luttuosi, in modo da far superare gli ostacoli che bloccano la persona nel dolore.
IL LUTTO
Il lutto inteso come perdita per morte, di una persona cara a noi significativa, è un evento drammaticamente doloroso che rientra in una dimensione inevitabile dell’esistenza umana.
I lutti possono essere vissuti in modi diversi: la perdita di un genitore, quando si è ancora piccoli, è sicuramente molto diversa che sperimentarla da adulti. Alcune morti sono vissute come naturali, nel caso di parenti anziani, altre invece non riescono neppure ad essere pensate come nel caso di morte dei propri figli.
Seppure l’intensità del dolore e la sua durata varierà considerevolmente da individuo a individuo, si è intravisto un sottofondo comune: una successione di stati mentali, emotivi, cognitivi e comportamentali che si fondono e si sostituiscono l’uno con l’altro tanto da parlare di un “processo biologico” del lutto volto ad una sua “risoluzione”.
Dobbiamo chiederci che cosa si intende per “risoluzione del lutto” e quando possiamo definire il lutto “risolto”?
Freud in una lettera indirizzata a Binswanger, dopo la morte di un suo nipotino scriveva:
“E’ noto che il cordoglio acuto dopo una tale perdita passerà, ma si resta inconsolabili, non si troverà mai un compenso. Tutto ciò che può subentrare, anche se riempisse il posto vuoto, resta qualcosa di diverso. E, a dire il vero, è giusto che sia così. E’ l’unico modo per proseguire l’amore da cui non si vuole desistere“.
Bowlby nella sua opera La perdita (1980), secondo la cornice teorica dell’attaccamento, ha contribuito alla comprensione dei vari fenomeni che compaiono dopo la perdita di una persona significativa, ossia una figura di attaccamento, ed ha individuato quattro fasi – che hanno una intensità e durata soggettiva – per tutto il decorso di questo processo così doloroso:
- La fase dello stordimento o dell’incredulità, rappresenta il primo momento di impatto con la comunicazione della perdita: si è incapaci di accettare la notizia. Durante questa prima fase si alternano momenti di distacco e incredulità (ci si domanda: siamo sicuri che è morto?), a sensazioni di dolore, di perdita e smarrimento. Tutte queste sensazioni provocano una forma di automatismo che si manifesta nella prima giornata del lutto, quando i parenti più prossimi si occupano delle vicende amministrative – del trasporto e della sepoltura della salma – in un modo distaccato. La fase di incredulità perdura di più nel tempo se non si è vista la morte, non si è visto il corpo senza vita del proprio caro. Le persone hanno bisogno del corpo per iniziare il processo del lutto perché è il primo momento in cui si verifica, si tocca, si prende atto della morte e comincia questo “processo biologico”.
- La fase dello struggimento e della ricerca della figura persa. La persona che ha perso una figura affettivamente significativa inizia, da un lato, a prendere atto della realtà della perdita reagendo con angoscia e disperazione, dall’altro invece rifiuta questa consapevolezza, nutre la speranza che tutto possa tornare come prima e questo genera irrequietezza e inquietudine. Nello stesso tempo, sperimenta la rabbia – rivolta alternativamente verso chi l’ha abbandonato o verso chiunque abbia potuto contribuire all’evento – e la colpa, accusandosi di aver o non aver compiuto qualche presunto atto collegato alla malattia o al decesso.
- La fase della disperazione. Questa è la fase in cui la persona prende coscienza ed inizia ad accettare l’irreparabilità della perdita. Lo stato di agitazione viene sostituito da disinteresse per tutto ciò che accade, l’umore è depresso. Questo stato d’animo costituisce lo stato emotivo predominante del primo anno di lutto e persiste come sottofondo per almeno due o tre anni. Anche dopo diversi anni dalla perdita, può ritrovarsi una vulnerabilità, con il ripresentarsi di un umore depresso in prossimità di anniversari o momenti significativi.
- La fase di riorganizzazione, che può essere più o meno riuscita. Affinché il lutto si possa definire risolto, sembra indispensabile che la persona che lo sperimenta sopporti il tormento emotivo che esso comporta, accetti e riconosca la ineluttabilità della perdita fino in fondo, riacquisti un proprio equilibrio, ritrovi la propria vita e inizi a ridefinire obiettivi e progetti futuri.
Bowlby scriveva: “il lutto sano è il tentativo riuscito, da parte di un individuo, di accettare l’irreversibilità della perdita e di riorganizzare i propri legami affettivi“, aveva intuito che non tanto di fine si tratta, ma di trasformazione dei legami, la persona defunta resterà per sempre presente nel mondo interiore di chi resta.
Per risolvere un lutto, si ha bisogno di tempo e di condizioni facilitanti. Si ha bisogno di un affiancamento che Bowlby ha chiamato “figura su cui contare“, ossia un “compagno di viaggio” che sappia ascoltare senza giudizi, condividere le emozioni e trovare un nuovo significato agli eventi. La risposta più utile che si può offrire a coloro che vivono un lutto è: attenzione, empatia e conforto.
Shakespeare scriveva: “Dà voce alla sofferenza. Il dolore che non parla imprigiona il cuore agitato e lo fa schiantare“.